
Alla base di una comunicazione
“possibile” deve stare innanzitutto il rispetto
reciproco. I pregiudizi impediscono una comunicazione serena ed allo stesso
tempo annientano la necessaria fiducia
che gli interlocutori devono dare l’uno all’altro.
Rispetto e fiducia si traducono in capacità di ascolto, comprensione delle
aspettative del paziente da parte dei sanitari e comprensione dei quadri e
delle possibilità prospettate dagli operatori per i pazienti.
La capacità di ascolto, per essere
efficace, deve ovviamente associarsi ad un tempo sufficiente per la
veicolazione dei messaggi, un tempo sempre meno disponibile a volte per i
carichi di lavoro degli operatori, a volte per la mancata predisposizione alla
comunicazione ed all’ascolto sia da parte degli operatori che dei pazienti.
Negli ultimi anni, per esempio, sono
sempre più frequenti a livello mondiale, i casi in cui infermieri dell’Area di
Emergenza, cioè del cosiddetto Pronto Soccorso, che vengono verbalmente e/o
fisicamente aggrediti nell’atto di spiegare ai pazienti che un paziente con “codice
verde”, cioè con una condizione di salute stabile e per niente critica dovrà
cedere il turno di ingresso a pazienti con “codice giallo” o “codice rosso”,
pazienti in cui le condizioni di salute
sono assolutamente più critiche e ne richiedono un più veloce accesso alle
cure.
In questi casi “ascoltare” significa
anche “comprendere” le necessità di altri, accettare una regola nell’ottica del
migliore funzionamento possibile della struttura che accoglie, e l’aggressione
diventa un modo per rivendicare in modo inaccettabile un “diritto” che non si
ha e che invece lede la salute di altri. Basterebbe ascoltare e comprendere.
Episodi di questo tipo ovviamente mettono gli operatori sanitari in un
atteggiamento di difesa che in futuro avrà certamente ripercussioni negative
sulla capacità e sulla motivazione ad attuare una comunicazione efficace con i
pazienti o i loro congiunti.
Ma come talora i pazienti possono
interrompere il canale di comunicazione con atti censurabili, anche gli
operatori talora dimenticando che dietro il “paziente” c’è una persona, presi
dai ritmi di lavoro perdono quella umanità, quella capacità di ascoltare che
tanto è utile per la serenità di chi non ha scelto di essere paziente.
Nel mio lavoro quotidiano assisto
molto spesso a casi in cui l’interruzione della comunicazione crea situazioni
insostenibili in un rapporto di cura, situazioni in cui il medico o
l’infermiere sono certi di “avere ragione” ed allo stesso modo il paziente o i
suoi congiunti ne sono certi ugualmente. In questi casi si devono ascoltare
entrambe le parti. Capire che ascoltare vuol dire anche sospendere l’innata
tendenza dell’essere umano ad emettere giudizi nell’arco di pochi minuti e consentire
all’interlocutore di esprimere il proprio pensiero e le proprie preoccupazioni.
Non si sceglie di essere pazienti, ma
quando lo si diventa, ed ognuno di noi lo diventa in qualche periodo della
propria vita, ha diritto ad un interlocutore attento e disponibile, ciò tuttavia ha un costo..... ma questa è un'altra storia.