Stasera
leggevo la presentazione del libro War
Doctor: Surgery on the Front Line di David Nott, un chirurgo traumatologo
che ha lavorato nelle zone di guerra di Afghanistan, Yemen e in tanti altri
ameni luoghi abitati dalle miserie umane.
Il libro
racconta di chi aiuta e di chi uccide, della grande contraddizione dell’umanità
intera, e di quanto schifo fa il mondo
(riporto in corsivo una frase di mia nonna, tagliente e realista come nessun’altra
persona al mondo io abbia mai conosciuto).
Come ricorda
in un recente articolo Daniel Sokol (autore del libro Tough Choices: Stories from the Front Line of Medical Ethics) War
Doctor non è per i deboli di cuore. Ed io concordo assolutamente.
Stasera dicevo, dopo che le storie di War Doctor mi hanno privato di ogni briciola di ottimismo, non potevo
che imbattermi in un gradevole articolo di Ian Leistikow, autore del libro Prevention is better than cure. Learning
from adverse events in healthcare.
Il lucido ragionamento
di Ian Leistikow affronta il tema delle fasi attraverso le quali la sicurezza
può migliorare in vari settori delle attività umane.
Nella prima fase sono la conoscenza e la tecnologia ad essere il motore del miglioramento.
Nella seconda fase una adeguata gestione della conoscenza e della tecnologia consentono di
ottenere un ulteriore miglioramento. La seconda fase è quella delle linee
guida, delle procedure, dei regolamenti.
Al culmine
della seconda fase si avvia la terza
in cui i driver per nuovo miglioramento sono la cultura ed il comportamento.
Relativamente
all’ambito sanitario pensiamo al secolo scorso (prima fase) in cui lo sviluppo
di conoscenza e tecnologia hanno concesso una maggiore aspettativa di vita.
Poi è
arrivata la fase (seconda) del miglioramento della sicurezza. Linee guida,
regole e regolamenti hanno aiutato gli operatori sanitari a raggiungere nuovi e
migliori risultati per i pazienti.
La terza
fase, probabilmente quella dell’ultimo decennio, ci ha inaspettatamente servito
un certo rifiuto nei confronti di linee guida e quanto altro utile alla
gestione della conoscenza.
Senza
affrontare nel dettaglio le umane debolezze, come non pensare per esempio a
sistemi di supporto alla memoria (checklist) applicati senza apprezzarne
davvero il significato e talora solo con l’intento di smaltire inutili carteggi.
Siamo all’apice
della seconda fase ? Probabilmente sì.
Per
migliorare ulteriormente (e per non perdere terreno) dobbiamo guardarci negli
occhi ed affrontare i nostri valori, la nostra cultura e valutare il nostro
comportamento.
Non a caso la
cultura della sicurezza è il primo tema con cui deve confrontarsi chiunque
voglia tentare di capire qualcosa di rischio clinico.
Charles
Vincent, in una recente lettura magistrale tenuta in Italia, ha parlato delle dark ages, tempo in cui si parlava di
cure ma non di sicurezza delle cure.
La terza
fase è quella che ci porterà ancora più avanti o ci farà sprofondare in un
pericoloso passato.
Mentre
parliamo di PDTA e di rischio clinico 2.0, occhio alla identificazione dei
pazienti ed agli elettroliti concentrati.
Così… per
dire…